Tappa Ventitré - da Campolieto a Toro


4 settembre 2015 

Breve tappa sulla provinciale, in più punti totalmente dissestata e chiusa al traffico. Ci avviciniamo subito all’imbocco di un sentiero che dovrebbe collegare Campolieto a San Giovanni in Galdo, ma l’autista del primo bus del mattino è solo l’ultima di una serie di persone che ce lo sconsigliano, impraticabile, lasciato andare da tre anni. Per strada incontriamo diversi cani, due di questi dopo averci abbaiato contro sembrano esultare e iniziano a seguirci festosi. Hanno il collare, noi cerchiamo di ignorarli ma loro sfoggiano tutta la simpatia di cui sono capaci.


Arrivate a San Giovanni in Galdo, mentre noi recitiamo le preghiere mattutine a Santa Colazione, un vigile riconosce i collari e chiama il padrone: finalmente possiamo cedere alla tentazione di accarezzarli. Dopo poco arriva Nicola, un ragazzo con cui nasce subito una stima reciproca, il quale ci invita per pranzo. Prendiamo il suo numero e proseguiamo verso Toro tra canzoni, risate e passi veloci per far finire presto l’asfalto. Poco prima di entrare in paese una grossa moto accosta di fianco a noi e, togliendosi il casco, Fernando si presenta con un “voi stasera dormite da me”. Due indicazioni e si procede. Pochi metri dopo, alle porte di Toro, si ferma anche una macchina. Scambiamo due chiacchiere con Lucio sullo sfondo dell’abbaiare di due dalmata nel giardino di fronte, lui va verso il mare e ce lo saluterà. Entriamo in paese con il sole in testa, i pensieri riarsi e la stanchezza che ci confonde: non è fatica ma saturazione di tutto ciò che è successo, di tutto ciò che sta ancora succedendo in questo viaggio “fuori rotta”. Domandiamo ad alcuni anziani seduti sui muretti: nessuna fontana a Toro e questo incrocio sembra proprio esserne la piazza centrale. Rintracciamo la moto di Fernando ma, ancora prima di raggiungerla, una signora con l’accento familiare ci invita a seguirla in casa. Se c’è una cosa che abbiamo imparato in queste settimane è affidarci. La seguiamo e basta: scopriamo che quella è proprio la casa di Lucio; ci accolgono sorella e madre e, assieme a loro, compaiono succhi, fichi, dolci appena sfornati, caciocavalli e salsicce caserecce. Questo no, ancora non l’abbiamo imparato e dopo un mese ci troviamo ancora spaesate di fronte a tutto questo dare. Ringraziamo e torniamo da Fernando che ci mostra il frutto del suo ultimo anno e mezzo di lavoro: la cucina non è ancora finita, lui e sua moglie indossano scarpe e pantaloni da lavoro, macchiati di stucco, ma quello che ci si apre davanti è un riassunto di dedizione, buon gusto e sacrificio. Un palazzo ristrutturato nei suoi colori più accesi, “un punto di accoglienza per i pellegrini” ci racconta con lo sguardo liquido Fernando, i suoi sono occhi da febbre ma non c’è delirio, solo un uomo con i piedi ben piantati a terra. Non ci guardiamo, ma sappiamo che stiamo pensando la stessa cosa: non­possiamo­accettare. 
E potremmo uscire, sederci sulle scale, elencare i pro e i contro. Potremmo analizzare l’intera situazione con quella precisione deterministica che tu, Giulia, applichi ai ragionamenti che il tuo segno zodiacale ­ ovviamente Vergine ­ richiede. O potremmo anche guardare al momento coi tuoi silenzi imbarazzanti, Clara, lasciando che il tempo faccia il suo gioco confuso, come sei solita permettergli. Ma nessuno capirebbe, perché l’ospitalità non ha niente di razionale, non risponde a un’offerta, non è causa di niente. Non vuole un effetto né ha bisogno di attese. L’ospitalità è un riflesso immediato e spontaneo, caglia le situazioni, le rapprende e dà loro una nuova forma. Si può non capire ma non si può non accettarla. Ti abbraccia, l’ospitalità. Entriamo e prendiamo possesso del nostro letto. 
Nicola arriva a prenderci che sono le due passate ma, noi, il quadrante non lo guardiamo più da un pezzo. Con lui ripercorriamo -­ in macchina -­ la strada del mattino e nemmeno la riconosciamo. Ad accoglierci, Poldo e Tom, che ormai sono di famiglia. L’uno discreto ed elegante, l’altro spavaldo e in perenne ricerca di coccole. Ci sentiamo subito a nostro agio, amici di sempre. Nicola è uno di quelli che sogna con gli occhi spalancati e le mani già sporche di terra. Con la sua ragazza e qualche amico ha deciso di fare qualcosa di bello, qualcosa di suo. Ha iniziato dalla ristrutturazione di una casa, poi la nascita dell’azienda agricola, poliedrica e attenta. Mentre ci descrive quello che sarà, aiutandosi con le braccia, noi già la vediamo attiva e funzionante. Nicola ha trent’anni. Lo guardo e penso che vorrei essere lui, mi capita di rado. Penso che vorrei avere la lungimiranza, la determinazione e quella calma, fiducia nel tempo, la speranza di riuscire.


Conosciamo anche David, occhi nerissimi e immensi, alle prese con quattro forme di primo sale. Originario di Quito, ha scelto l’Italia. Ha scelto il Molise. Anche con lui non esistono convenevoli: ci rimbocchiamo le maniche e, mentre gli uomini spostano armadi e frigoriferi, noi scoliamo la ricotta calda che affogata in un mare di spaghetti ­- rigorosamente quadrati -­ e salvia, sarà il nostro pranzo. Stiamo bene lì, il tempo vola e sono ormai le sei quando i ragazzi ci riaccompagnano a Toro. È stato lieve ma significativo, lo sappiamo senza dircelo.


Anche a Toro abbiamo una guida d’eccellenza, Vincenzo, proprietario del museo etnografico, ovvero uno di quei ripostigli pieni d’oggetti d’altri tempi che chiunque vorrebbe scovare nella propria cantina. Vincenzo è un fiume di parole, di quelle con un peso specifico denso, parole consapevoli di tanta storia e cultura, parole di un uomo che ha passione per la terra in cui vive. È sempre lui che ci accompagna tra le viuzze di Toro, quattro le principali che disegnano una X allungata per tutto il paesino. Abbiamo il tempo per uno spuntino delizioso e poi Fernando ci porta verso un altro “fuori rotta”, Pietracatella. Oggi è il giorno delle piste non battute, lasciamo che siano gli altri a fare la strada. 
Il paesino sembra delizioso, forse perché Rosario ce lo anima con passione o forse perché è il primo che attraversiamo di notte. Ce lo godiamo a metà per la stanchezza e perché domani sarà la nostra penultima tappa. E, dopo la penultima, c’è, sempre.

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