Tappa Venticinque - da Ripalimosani a Campobasso


6 settembre 2015 

Ci incamminiamo verso Ripalimosani in anticipo, da oggi il tempo non è più una lunghezza relativa: vogliamo fare un giro del paese prima della nostra “ora X”, ieri non siamo riuscite nemmeno a visitarlo, tante le cose che sono successe. Troviamo un borgo di pietre, gatti e panni stesi nell’immobilità dell’alba successiva a una notte di festeggiamenti. È un percorso a ritroso, scendiamo anziché salire per visitarne il centro, arriviamo nel punto più basso dove si trova un crocevia di stradine tempestato di balle di fieno e resti di bevute serali. Fa uno strano effetto, ci piace anche così, da ripulire. Sembra di vivere in una bolla temporale ferma in un angolo di Medioevo. Ci perdiamo ancora un po’ tra i suoi vicoli e poi rispuntiamo nella piazza principale, quella della “scosciata” ­- credo si chiami Irma -­, quella dell’appuntamento: gruppetti di persone in tenuta inequivocabile la ravvivano in questa mattina surreale; noi aspettiamo un po’ i ritardatari, abbracciamo, salutiamo, conosciamo, sorridiamo, ci emozioniamo. Non ci aspettavamo tutta questa gente e ci sentiamo come in una grande famiglia, oggi ancora di più.


Non è facile raccontare questa giornata, non lo è per niente, perché è qualcosa di completamente diverso da tutte le altre tappe percorse, qualcosa di più complesso, perché creato da tante persone, forse una cinquantina, forse di più. Se già in sei, sette persone il cammino è diventato altro, essere un gregge rende questa transumanza inafferrabile nelle sue singolarità, troppi gli incontri paralleli che avvengono camminando insieme ed accostandosi ora all’uno, ora all’altro, troppe le storie che vengono raccontate, le vite svelate, gli sguardi carpiti. Del paesaggio non resta quasi niente, balle di fieno da scalare, l’ultimo pezzo di tratturo che a un certo punto, semplicemente, finisce. Quasi non ce ne rendiamo conto, non c’è nessun “ultimo passo” e forse è meglio così. E anche la meta, esattamente, non sappiamo quale sia. Una piazza qualsiasi di Campobasso, poi il castello, il punto più alto. Alla spicciolata i nostri compagni di viaggio tornano alle loro vite domenicali, ma restiamo comunque un bel numero fin lassù. Non riusciamo a mettere la parola “fine” e trasciniamo i minuti trascorrendoli, lasciandoli ­- semplicemente -­ andare. Come un passaggio, il nostro, in questa terra molisana.


Oggi non riusciamo a essere stanche, siamo a cento, siamo a mille. Assieme a Gianni e Sara ci arrocchiamo a casa di Antonella, ma solo quando tutti sono andati via e quelli che restano sono il nostro nuovo noi. Non più Clara e Giulia, non più quei quattro piedi con un solo cervello, ora siamo tanti, molti di più. È un pomeriggio sospeso tra i ricordi che iniziano lenti a fare fondo e le cose che non ci vogliamo perdere. Così, dopo il sempreverde spaghetto quadrato, un saluto a Domenico -­ forse unico molisano rimasto a non sapere della nostra avventura ­- ci spingiamo ancora fino a Ferrazzano a bagnarci del rosso dell’ultimo tramonto e poi in giro per Campobasso per dare alla città lo status definitivo di “arrivo”. Ma manca ancora un’intercapedine, quel distacco necessario che possa permettere a questo mese di raffreddarsi e raggiungere la giusta temperatura per essere raccontato.


Domani partiremo separate, Giulia prenderà il bus verso Roma e poi un passaggio in macchina fino a Torino, Clara andrà verso la costa col regionale adriatico. Cerchiamo in ogni modo di velocizzare i tempi: non ci piacciono i saluti, non ci sono mai piaciuti e in un mese non abbiamo ancora imparato a dire addio. Forse perché, in fondo, speriamo questo sia solo un arrivederci. Forse perché questo Molise, più di tutto, ci ha spiegato senza parole che basta poco per sapere accogliere: un immediato, spontaneo desiderio di incontrare l’altro.

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