Tappa Diciassette - da Termoli a Campomarino


28 agosto 2015 

A Termoli ci arriviamo di notte. Siamo ospiti di Cinzia, ci ha preparato due letti in sala e ha spostato Ernesto in bagno, per non disturbare. Ernesto è un criceto che, insieme a Sushi -­ ovviamente un pesce rosso -­, dividono l’appartamento con lei. Di Cinzia ammiriamo la femminilità e la grazia con cui fa tutto, dagli aiuti tecnologici alla visita guidata di Termoli. Noi, con tre cambi nello zaino e i capelli da ragazzino in pubertà. 
La mattina seguente facciamo le turiste: schiena leggera e vestito della festa; Cinzia oggi non lavora e ci accompagna. Appena entriamo nel centro storico, ci racconta che quello su cui stiamo passeggiando è il “nuovo” corso Nazionale, un’ampia via pedonale costeggiata da negozi; è così solo da pochi mesi, prima ci passavano le macchine, c’erano marciapiedi, un’altra forma. La relatività dello sguardo. Arriviamo al castello e al mare con i suoi trabucchi che ci fanno sognare altre vite. Vite da pescatori, da pirati. Poi rientriamo tra le case pastello e ci perdiamo negli splendidi vicoli del borgo antico, attraversando anche la -­ seconda -­ via più stretta del mondo. Restiamo ammaliate dalla rosa dei venti, tutti quelli che attraversano la città. E sono tanti. Sono molti più di quelli che conosciamo per sentito dire, tutti italianissimi, nessuna Katrina o Sandy a darsi aria. In pausa pranzo ci raggiunge Gilda, mangiamo insieme, Cinzia invece ci lascia per proseguire la giornata, ci aspetterà a casa più tardi. Con Gilda scopriamo quello che ribattezziamo “il polpo dei templari”, un posto delizioso tutto pietra e nicchie, solo noi a guastarne il silenzio. Il pesce è fresco, pescato di buon mattino dallo stesso proprietario del locale; ci rilassiamo assieme alla nostra amica molisana, la quale ci svela altri angoli di città e ci mostra la sua casa dei sogni vista mare. Il mare: non possiamo partire senza salutarlo, così eccoci, zaino in spalla sugli scogli per il primo e ultimo bagno termolese, poi via verso Campomarino.


Peccato che l’unico ponte sul Biferno coincida con una statale in cui le macchine sfrecciano agguerrite a pochi centimetri da noi: ci tocca viaggiare con la morte alle spalle, non se ne parla di attraversare né ci è possibile tagliar per campi o ripararci con il guardrail. Poi però finisce e, con lui, anche il Biferno. Restiamo a contemplarne la foce, ripensando a quando eravamo a Bojano, alla sua sorgente, e ci fermiamo tristi a guardare quanta poca acqua affluisca al mare. Facciamo qualche passo e lì arriviamo alla vera foce del Biferno, un flusso copioso che salutiamo con l’emozione consapevole dei chilometri percorsi. Ci eravamo sbagliate, per fortuna. 
Per entrare a Campomarino scegliamo il sentiero. Sassolini bianchi che ci accompagnano per una salita più ripida rispetto all’asfalto, ma più graziosa che va a gettarsi in un vicolo cieco. Abbiamo voglia di arrivare e poi non sopportiamo di tornare sui nostri passi così chiamiamo a gran voce il nessuno che non c’è mai. Il caso/la provvidenza/il destino, tutti insieme vogliono sorprenderci e, in quel momento, fa capolino un abitante che ­- un po’ infastidito -­ ci lascia attraversare casa sua per tornare sulla strada principale. Un’anziana signora si sporge dalla porta aperta per salutarci e parlarci della sua famiglia di musicisti emigrati in Germania. Poche parole, pochi minuti. C’è sempre modo e tempo di raccontare una vita.


Ci addentriamo nel centro storico e, appena voltiamo, l’angolo i muri rinascono grazie ai murales realizzati negli anni da diversi artisti, locali e internazionali. Passeggiamo in questo labirinto per un po’, prima di accorgerci di due ragazzi che stanno ad ascoltare una signora affacciata al balcone fiorito di una casa arancione. Una scena già vista, in qualche pagina al liceo. Si chiama Costanza e noi non perdiamo l’occasione di scambiare due chiacchiere con lei. Così scopriamo poco a poco la storia di Campomarino, la parte alta della città che coi denti stretti cerca di rimanere viva. E bella. Costanza ci offre anche un posto dove dormire, però ora deve scappare a una cena con amici, così noi proseguiamo il cammino con la stessa fiducia di sempre. 
Adocchiamo un prato lindo, un prato vero. Ma il nostro sguardo deve avere qualcosa di terribilmente decifrabile perché all’istante ci sconsigliano di piantarvi la tenda, qui volano le multe, non servono parole. Ci incamminiamo alla ricerca di Don Rosario, “lui potrà sicuramente aiutarvi” ma il Don non è in casa, non è in parrocchia. Chiediamo aiuto a Sicuro, un carabiniere di fresca pensione che ci scorta per le vie della città nuova all’inseguimento del pulmino delle suore. Ci ritroviamo a una cena diocesana ma nessuno degli invitati può suggerirci un posto dove accomodarci. Sicuro cerca un appoggio nel lido dove lavora suo figlio, una cosa sottobanco, sono due brave ragazze, ma papà, quelli mi licenziano. Però il Molise è piccolo e, mentre assecondiamo il nostro angelo custode quotidiano in un paio di scherzi telefonici, sfruttando la nostra finta piemontesità, Gilda ci chiama: ha trovato una casa che ci può ospitare per la notte. Dormiremo dai nonni di Pascal, un suo amico o forse lontano parente, non sappiamo ma non è così importante. Anche stanotte qualcuno ci ha aperto la porta e noi non possiamo non pensare a quanto ci sia facile chiuderla a chiave. Un automatismo di paure che ci fanno sempre più inespugnabili. 
Ora siamo qui, il materasso è morbido e il sacco a pelo sta chiuso nello zaino: nonna ha voluto che usassimo le coperte. E gli asciugamani. E il bagnoschiuma e lo shampoo. Ci ha cucinato due spinacine e siamo rimasti a parlare fino a tardi, noi due, nipoti incoscienti e affettuose, loro due nonni moderni che attraversano l’oceano e si fidano dei cambiamenti e della vita.

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